Quesito Antiriciclaggio n. 3-2018/B “Antiriciclaggio – Compravendita di immobile – Pagamento del prezzo in bitcoin”


Quesito Antiriciclaggio n. 3-2018/B

“Antiriciclaggio – Compravendita di immobile – Pagamento del prezzo in bitcoin”

Si prospetta la seguente fattispecie. La società Alfa, parte venditrice, e Tizio, parte
acquirente, intendono stipulare un atto di compravendita avente ad oggetto un bene immobile ad un
prezzo che, seppur determinato in euro, verrebbe regolato in “bitcoin”.

Ciò posto, si chiede di sapere se il pagamento del prezzo della vendita di un bene immobile
in bitcoin – o altra criptovaluta – violi le norme in materia di limitazione all’uso del denaro contante
(art. 49 del D.Lgs. n. 231/2007, come modificato dal D.Lgs. n. 90/2017) nonché quelle in materia di
indicazione analitica dei mezzi di pagamento (art. 35, comma 22 del D.L. n. 223/2006, convertito
con modificazioni in L. n. 248/2006).

Appare preliminarmente opportuno delineare in sintesi le caratteristiche essenziali del
sistema bitcoin.

Prendendo le mosse dall’osservare che tuttora è in atto un dibattito sulla natura giuridica dei
bitcoin, i quali, secondo alcuni, sarebbero inquadrabili come strumenti finanziari mentre, secondo
altri, consisterebbero in strumenti di pagamento, è tuttavia possibile rilevare che tale seconda tesi
appare quella maggiormente accreditata ed è, peraltro, quella accolta dalla stessa Corte di Giustizia
Europea (C-264/14, sentenza 22 ottobre 2015) nonché condivisa dall’Agenzia delle Entrate
(risoluzione n. 72/E del 2016).

In particolare, tra le altre cose, è stato affermato che le “operazioni relative a valute non
tradizionali, vale a dire diverse dalle monete con valore liberatorio in uno o più paesi,
costituiscono operazioni finanziarie in quanto tali valute siano state accettate dalle parti di una
transazione quale mezzo di pagamento alternativo ai mezzi di pagamento legali e non abbiano altre
finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento” e che “la valuta virtuale a flusso bidirezionale
“bitcoin”, che sarà cambiata contro valute tradizionali nel contesto di operazioni di cambio, non
può essere qualificata come “bene materiale” ai sensi dell’articolo 14 della direttiva IVA, dato che
(…) questa valuta virtuale non ha altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento” (Giustizia
Europea – C-264/14, sentenza 22 ottobre 2015).

E’ stato inoltre rilevato che: “Il bitcoin è una tipologia di “moneta virtuale” o meglio
“criptovaluta”, utilizzata come moneta alternativa a quella tradizionale avente corso legale emessa
da un’autorità monetaria. La circolazione dei bitcoin, quali mezzi di pagamento, si fonda
sull’accettazione volontaria da parte degli operatori del mercato che, sulla base della fiducia, la
ricevono come corrispettivo nello scambio di beni e servizi, riconoscendone, quindi, il valore di
scambio indipendentemente da un obbligo di legge. Si tratta, pertanto, di un sistema
decentralizzato, che utilizza una rete di soggetti paritari (peer t
specifico, quindi, nessuna autorità centrale emette nuova moneta o traccia le transazioni; tutti i
passaggi vengono gestiti, quindi, autonomamente e collettivamente dalla rete.

“Le criptovalute hanno due ulteriori fondamentali caratteristiche. In primo luogo, non
hanno natura fisica, bensì digitale, essendo create, memorizzate e utilizzate non su supporto fisico
bensì su dispositivi elettronici (ad esempio smartphone), nei quali vengono conservate in
“portafogli elettronici” (cd. wallet) e sono pertanto liberamente accessibili e trasferibili dal
titolare, in possesso delle necessarie credenziali, in qualsiasi momento, senza bisogno
dell’intervento di terzi. In secondo luogo, i bitcoin vengono emessi e funzionano grazie a dei codici
crittografici e a dei complessi calcoli algoritmici” (Ag. Ent., ris. cit.).

E, infatti, il sistema bitcoin, secondo quanto da più parti affermato, consisterebbe in un
innovativo sistema elettronico di pagamento che ha l’ambizione realizzare il cosiddetto “contante
digitale”. Il sistema in parola utilizza la crittografia a chiave pubblica, cioè un algoritmo
crittografico asimmetrico che si serve di due chiavi, generate matematicamente: la chiave privata,
impiegata per “crittografare” o firmare digitalmente il documento, il “denaro digitale”, e la chiave
pubblica, che viene usata per “decrittografare” il messaggio o per verificare la firma. Il legame
matematico presente tra le due chiavi fa sì che la chiave pubblica funzioni solo se esiste la
corrispondente chiave privata.

“Lo scambio dei predetti codici criptati tra gli utenti (user), operatori sia economici che
privati, avviene per mezzo di un’applicazione software. Per utilizzare i bitcoin, gli utenti devono
entrarne in possesso: 1) acquistandoli da altri soggetti in cambio di valuta legale; 2) accettandoli
come corrispettivo per la vendita di beni e servizi” (A.E., Ris. cit.).

Ciò posto, è stato osservato, che “il bitcoin, come unità di misura, non ha valore intrinseco,
né diretto né indiretto, il suo valore non è legato alla ricchezza economica di una comunità, ma è
dato dal volume di scambi con altre valute ed è condizionato dalla domanda e dall’offerta
all’interno di un mercato virtuale. Il suo valore non è condizionato da nessun tipo di politica
monetaria, non esistendo un ente sovraordinato o una banca centrale a cui sono attribuiti poteri di
indirizzo o di intervento sull’emissione e circolazione della moneta; ciò costituisce, da un lato, una
caratteristica essenziale ed un punto di forza del bitcoin, che nella sua genesi ha avuto come
obiettivo principale la decentralizzazione della politica monetaria attraverso l’eliminazione di
banche centrali ed intermediari e, da altro lato, rappresenta anche il suo maggior punto di
debolezza essendo il valore del bitcoin rimesso alla volubilità del mercato senza possibilità di
correzione e protezione del valore della valuta virtuale attraverso manovre di politica monetaria da
parte di una banca centrale. Ciò determina un’elevatissima volatilità del valore (rectius: tasso)
della moneta virtuale condizionato esclusivamente dal volume degli scambi, dalla domanda e
dall’offerta e dalla fiducia nel sistema o più precisamente nelle piattaforme informatiche che
gestiscono gli scambi. Il rischio concreto è che ad una regolamentazione legale da parte di una
banca centrale o di altro intermediario finanziario si sostituisca una regolamentazione di fatto da
parte di soggetti in grado di alterare le dinamiche della domanda e dell’offerta” (così Krogh, in
Bitcoin, blockchain e le transazioni in valute virtuali. Il ruolo del notaio ed i rischi riciclaggio, in
corso di pubblicazione in Notariato, Milano).

Considerazioni similari sono state espresse altresì dal governatore della BCE, Mario Draghi,
che, in una dichiarazione riportata ne “Il Sole24Ore” del 14 febbraio scorso, ha negato che il bitcoin
possa rappresentare una valida alternativa alle monete tradizionali per quattro diversi ordini di
ragioni. Innanzitutto perché il bitcoin non è emesso da una banca centrale; in secondo luogo, in
quanto il bitcoin non è generalmente accettato come mezzo di pagamento; il terzo motivo attiene,
invece, alla sicurezza, dal momento che nell’uso del bitcoin gli utenti non ricevono alcuna
protezione, con la conseguenza che di fronte ad eventuali azioni di hacker non esistono tutele legali;
infine, perché i bitcoin sono caratterizzati da un’elevata volatilità, dal momento che, in assenza di
qualsivoglia regolamentazione, i bitcoin non sono stabili ed il loro valore può oscillare in maniera
consistente anche in un arco temporale molto breve.

Alla luce di quanto riferito, tralasciando un’analisi approfondita dei motivi che possano
indurre a preferire i bitcoin ad altri tipi di valuta che offrono ben altre certezze e garanzie, motivi
che, verosimilmente, potrebbero attenere all’assoluto anonimato che presidia il possesso e la
circolazione dei bitcoin, venendo ai riflessi sul piano della tracciabilità dei pagamenti e delle norme
sulla limitazione all’uso del contante, valgono le considerazioni che seguono.
Le operazioni in bitcoin – o in altre criptovalute – sono sicuramente tracciabili in senso
informatico; in un pubblico ed immutabile registro rimane infatti traccia indelebile del fatto che
l’ignoto detentore di una chiave privata, corrispondente ad una data chiave pubblica, ha trasferito
bitcoin ad un altro ignoto detentore di altra chiave privata corrispondente, a sua volta, ad altra
chiave pubblica. A tal proposito, occorre, ad ogni modo, fare una precisazione di carattere generale.

I sistemi di accesso informatici, senza eccezioni, non si fondano sul concetto di “identificazione”
bensì sulla mera verifica di credenziali informatiche; la differenza, soprattutto ai fini della
normativa antiriciclaggio, non è di poco conto. L’utilizzo di un sistema informatico non può mai
garantire, pertanto, l’identità del soggetto che effettua un accesso, essendo tale sistema unicamente
programmato per abilitare determinate funzioni qualora l’utente sia provvisto delle corrette
informazioni di sblocco (pin, codici, etc.). Come noto, nemmeno l’uso di soluzioni biometriche è
esente da possibili elusioni.

Tornando alla problematica di cui trattasi, si evidenzia che, nel sistema bitcoin,
l’irreperibilità delle parti effettive non deriva da una forma di protezione (in qualche modo
reversibile o sospendibile) del dato, bensì da un anonimato intrinseco alla stessa tecnologia adottata.

Ne deriva, pertanto, che la possibilità di un tracciamento, meramente informatico, nel senso appena
accennato potrebbe essere del tutto ininfluente ai fini della normativa che ci occupa. Neppure
l’autore del pagamento può infatti identificare il destinatario.

In quest’ottica, l’ambizione, dianzi decritta, di realizzare, attraverso il bitcoin, il cosiddetto
“contante digitale” ha una discreta limitazione nella circostanza per cui, mentre in talune transazioni
effettuate in contanti il pubblico ufficiale può essere testimone di una traditio che avviene in sua
presenza, con ciò rendendo in qualche modo tracciato almeno un singolo segmento del flusso
anonimo del contante, l’operazione in bitcoin costituisce una transazione che potrebbe essere
definita apparente; essa proviene, infatti, da un “conto”, che l’acquirente dichiara essere proprio, ad
un altro conto del quale, parimenti, il venditore asserisce la titolarità, ma il tutto senza che possa
esservi il benché minimo riscontro della veridicità di tali dichiarazioni.

A fronte di tali considerazioni, si segnala che sono state proposte alcune soluzioni
infrastrutturali tendenzialmente in grado di ovviare agli indicati problemi. In tal modo, tuttavia,
probabilmente verrebbe snaturato il bitcoin nella sua verosimile ratio o funzione essenziale (quella
di garantire l’anonimato); ne deriva che, laddove si intenda realizzare il risultato di un pagamento che sia trasparente, sarebbe astrattamente
preferibile abbandonare l’idea di impiegare i bitcoin e optare per altri sistemi infinitamente meno
onerosi anche dal punto di vista puramente informatico.

Problematica appare quindi la questione relativa alla violazione della normativa sulla
limitazione all’uso del denaro contante; si consideri, infatti, che al riguardo il riferimento del
legislatore non poteva che essere rappresentato dalla moneta “fisica” e che, ad oggi, pur nell’ottica
di voler riconoscere ai bitcoin la qualificazione di “contante digitale”, un’eventuale interpretazione
evolutiva delle norme in parola sarebbe comunque inimmaginabile. Fermo ciò, se la finalità delle
norme sul limite all’uso del contante è garantire la tracciabilità delle operazioni al di sopra di una
certa soglia, attraverso la canalizzazione dei flussi finanziari presso banche, Poste S.p.A., istituti di
pagamento ed istituti di moneta elettronica, le considerazioni svolte in ordine alle caratteristiche
intrinseche del sistema bitcoin indurrebbero a ritenere che l’impiego di tale sistema neghi a monte
la ratio di tali norme.

Altrettanto problematica è, di conseguenza, anche la possibilità di procedere ad indicare
analiticamente in atto i mezzi di pagamento dal momento che se l’indicazione delle chiavi
pubbliche non soddisferebbe il requisito della tracciabilità, in quanto non consente di risalire al
titolare del portafoglio virtuale, l’indicazione delle chiavi private associate alle chiavi pubbliche
(che comunque non dà certezze legali sulla titolarità del conto virtuale) è improponibile giacché
renderebbe pubblico lo strumento per disporre della valuta virtuale.

Attesa la scottante attualità e la particolare complessità della materia in questione, occorre
concludere che i profili problematici sollevati nel quesito posto, allo stato attuale delle riflessioni in
merito, non possono trovare ancora risposte certe, necessitando, indubbiamente, di un maggiore
grado di approfondimento nelle sedi opportune. Di conseguenza, le considerazioni riportate devono
essere ritenute alla stregua di mere ipotesi ed indicazioni di massima.

Ad ogni modo, sulla base di quanto osservato e considerato che in fattispecie come quella
prospettata si pone un’oggettiva impossibilità di adempiere ai summenzionati obblighi
antiriciclaggio, si suggerisce una valutazione circa l’opportunità di procedere ad effettuare una
segnalazione di operazione sospetta.

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